A Roma esisteva una associazione a delinquere, pericolosa, composta da qualche personaggio certamente e decisamente non raccomandabile.
La mafia non c’entrava nulla.
Solo che immaginare e promuovere la seconda rendeva molto di più e così ecco i racconti tanto affascinanti.

Non è che una associazione a delinquere sia un fatto da derubricare a normalità: quanto è stato accertato e stabilito con la sentenza della Cassazione è di estrema gravità, ma la compostezza di una giustizia che sia solo giusta e non spettacolare fanno parte di quello che dovrebbe essere uno Stato di diritto.
Vale ricordare che la sentenza in primo grado non prevedeva per nulla l’associazione mafiosa.
Nell’appello, inserendosi in una vorticosa campagna “informativa” che doveva accompagnare interessi politici, ecco il cambio di definizione: Mafia Capitale.
Con il contorno di far apparire nell’immaginazione una situazione intrisa di innominabili comportamenti in tutto il tessuto che regola la vita della Capitale.
Ovviamente prima dell’arrivo degli “onesti incapaci”, il primo aggettivo autoproclamato, il secondo pubblicamente accertato.
Gli irriducibili, ovviamente e testardamente, insistono nel denunciare che quando ci si avvicina a Roma, e quindi alla politica, certe cose non si riesce a farle apparire.
A questi nostalgici della loro verità, che non è mai senza interessi, varrebbe la pena ricordare che fra tutti gli imputati uno solo, che si potrebbe definire politico, era fra i condannati. Per di più un politico molto locale, cioè conosciuto solo nei quartieri romani.
Allora varrebbe la pena che questi disinformatori la smettessero di raccontare le loro comodità.
Infatti è già triste accertare tutte le brutture delinquenziali che la sentenza certifica.
Non c’è nulla da festeggiare.
Per questo sarebbe utile che non si aggiungesse anche la pervicacia nel confondere il normale e leale confronto civile e politico.